Un libro con 200 fotografie di scrittori italiani realizzate tra il 1979 e il 2016 dai fotografi dell’agenzia fotogiornalistica Rosebud2. Un’antologia di autori e un catalogo dello stile che riflette l’evolversi nel tempo di questo genere fotografico: il ritratto di scrittori. Il volume è stato curato da Marcello Mencarini e contiene una presentazione di Paolo Di Paolo e una riflessione di Grazia Neri.
“Faccia finta di pensare”
Introduzione di Marcello Mencarini
Era il 1979. Avevo smesso con la fotografia pubblicitaria per fare reportage.
In quegli anni la mia generazione pensava ancora di cambiare il mondo e le foto patinate in sala posa non mi parevano adatte. Il reportage sì, chissà poi perché. Giravo Roma con una Nikon F al collo e un Sekonic in tasca pronto a denunciare torti, ingiustizie, miseria.Purtroppo o per fortuna, mi capitò più semplicemente di fotografare Cesare Zavattini e, purtroppo o per fortuna, Pasquale Prunas del Messaggero mi comprò 10 stampe in bianco e nero. Non erano i compensi ai quali mi ero abituato con la pubblicità, ma misi in tasca 50.000 lire senza “sporcarmi” reclamizzando marche di jeans o scatole di tonno. Così, quando a una delle tante presentazioni di libri che frequentavo incontrai Italo Calvino, gli chiesi se potevo scattargli qualche foto dopo l’incontro. “Perché qui?” Mi disse. “Ho una casa a Castiglione della Pescaia, a Roccamare, venga da me, lavorerà meglio”. Erano altri tempi… Oggi non capita neppure con un esordiente. Accettai l’invito ma, un po’ perché ero agli inizi, un po’ perché ero distratto dal suo carisma, feci solo un rullo in bianco e nero e pochi scatti a colori. Una foto con la -moglie, qualcuna alla scrivania e una mentre legge la New York Review of Books.
Vendetti molte di quelle immagini a L’Espresso, a Panorama e al solito Prunas del Messaggero: “Non so se mi serviranno, ma mi piacciono e le voglio avere in archivio”, mi disse. Altri tempi anche in questo.
Era cominciata la mia carriera di fotografo di scrittori.Non ho mai letto molti libri, preferisco la musica contemporanea, l’arte… ma mi piaceva ascoltare le loro storie, la loro visione del mondo, la loro capacità di coltivare il sogno, la fantasia, il gioco anche da adulti. E poi allora non li fotografava quasi nessuno e non facevano i capricci come cantanti e soubrette.
Viaggiavo molto per raggiungerli nelle loro città, nelle loro case, in vacanza… A volte chiedevo un incontro per telefono o scrivendo una lettera, altre volte andavo direttamente a suonare il campanello. Cercavo di fare foto ambientate e non usavo il flash, non ne ho mai avuto uno. Con me solo la mia solita Nikon F e un 28 mm al quale poi aggiunsi un 105 mm per i primi piani, che non ho quasi mai usato. Preferivo la visione grandangolare del 28. Mi permetteva di raccontare con un solo scatto la loro casa, quello che vedevano dalla finestra e gli oggetti che avevano sul tavolo o sul comodino. Insomma tutto quello che poteva suggerire qualcosa su di loro.Non rimpiangevo il fatto di non scattare foto in paesi lontani, in guerra… Era reportage anche questo, anche questo soddisfaceva il mio desiderio di raccontare storie a chi non poteva viverle in prima persona.
Per questo mi meravigliai molto quando Umberto Eco in una Bustina di Minerva (L’Espresso, 1998) scrisse: “La storia della fotografia ci ha consegnato alcuni ritratti sublimi. Ma se il fotografo, invece di ritrarre il signor X, celeberrimo, di cui pare restituirci l’anima stessa, con pari passione avesse ritratto il suo vicino di casa l’impressione sarebbe la stessa. Siamo sicuri che ci abbia rivelato l’anima di una persona determinata? Talora, ma il più delle volte ci rivela l’anima di qualcuno su cui avevamo già delle idee.”
Ma come? Anche se, per assurdo, l’effigie di uno scrittore o di chiunque altro fosse solo un simbolo privo di effettiva somiglianza, soddisferebbe comunque il bisogno naturale della mente di ancorare i concetti a delle immagini.
E poi Eco era proprio sicuro che le foto di lui che ancora circolano – la casa invasa dai libri, la sua voglia di scherzare con il fotografo, il suo sguardo vispo e intelligente – non ci abbiano lasciato qualcosa che si aggiunge a quello che troviamo nei suoi libri?A volte le immagini raccontano meglio delle parole, altre volte no, comunque non sono neutre. Sono un linguaggio ulteriore, con le sue regole e la sua retorica. Sono la faccia delle idee. Nel 1855, Walt Whitman pretese che la sua raccolta di poesie presso la Rome Brothers di Brooklyn, Leaves of Grass, venisse pubblicata senza il suo nome, ma solo con una immagine che lo ritraeva.
A differenza di altri miei colleghi che hanno passato la loro vita professionale a fotografare scrittori, io smisi presto un po’ per motivi economici, un po’ per esplorare altri territori, ma soprattutto perché lo stile stava cambiando e non mi interessava più. Erano arrivati i fotografi modaioli che con luci e fondali maculati estrapolavano i personaggi dal loro contesto creando immagini più vicine allo still life che ai ritratti ambientati che piacevano a me.
Anche oggi coordinando Rosebud2 – un’agenzia che raccoglie un vasto archivio di immagini di personaggi del mondo della cultura, in particolare scrittori – noto che i giornali chiedono spesso fotografie “glamour”. Vogliono la scrittrice con l’ultima pettinatura e, sempre di più, anche con una buona dose di Photoshop. Chiedono al fotografo di trasformarsi in qualcosa tra il parrucchiere e il chirurgo plastico.
E così anche in questo settore le immagini corrono il rischio di diventare tutte uguali, stereotipate. Al punto che una volta ho sentito un fotografo dire a Umberto Eco, mentre lo stava ritraendo: “Maestro, faccia finta di pensare”. Voleva la mano sotto il mento e lo sguardo intenso. Forse anche per questo Eco non credeva troppo nei ritratti…